TERZO RINASCIMENTO

Palazzo Ducale Urbino
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"IL BELLO" salverà
il Mondo?
Angelo Cruciani
& Grace Zanotto

NOI figli di una Crisi commerciale, Siamo i genitori del Terzo Rinascimento Promotori della ricerca creativo-sperimentale che parte dalla Città di Urbino verso un nuovo Umanesimo. NOI assoggettati ai dogmi della tv e virtualizzati nei nuovi mondi senza materia, precoci e surgelati da tutti i facili preconfezionamenti, imballati in relazioni sterili in quest'epoca che transita tra millenni e migrazioni, ci riappropriamo del diritto di Essere creatori e cre-attivi su questa Terra che i nostri padri hanno pensato di depredare e possedere. Quale Gioconda partoriranno le nostre mani sottomesse ad occhi lobotomizzati da perfezioni illusorie del Divino Photoshop? Siamo i figli positivi pronti a rigenerare l'Italian style grazie a genuine escrescenze provenienti dall'urlo espressivo dell'underground, vomitiamo l'inquinamento debordante della commercializzazione ossessiva e dell'apparenza, nel restituire immagini frutto del codice dei figli del cemento e dell'elettricità, in un terremoto di ibridazioni nomadi.

Ora il bello è contaminato da milioni di moods provenienti da discordanti linguaggi e matrici putrefatte, in una sovrapproduzione di stilemi. Oggi la realtà di una vita effimera e precaria ha generato negli Artisti il bisogno primario dell'autenticità emotiva: generare "bello" nel Terzo Millennio è vincere la storia, scavando nell'intimità percettiva per Recuperare la sensibilità che riporta alla purezza espressiva. Dopo il fallimento dell’omologazione estetico-comportamentale vanno ricanonizzati i criteri di giudizio, plasmandoli alla nuova era che riparte dagli anni ‘00. Questa Mostra è la bandiera dell'urgenza indotta da questo nostro vivere affannato, in un tempo che ci stringe lancette al collo, dove i genitori occidentali hanno costruito felicità di plastica che s'acquistano al centro commerciale ma che scadono in un giorno. E l'oriente s'allinea svendendosi sottocosto.

Sul pentagramma si dispongono mosche bianche per soddisfare i nuovi canoni del piacere. Questa Mostra è il canto che annuncia l'era della consapevolezza. Momento d'interscambio culturale aperto che nella sinergia trova la sua massima espressione. Scalciano neuroni freschi, trepidanti per la nuova partenza, verso un’estetica ancora possibile oggi: utopica e marginale.

Post-Beauty:
Frammenti di Bellezza nell’Epoca Digitale.
Marcello Pecchioli

Parlare del bello e di Nuovo Rinascimento in un epoca digitale come è quella che stiamo vivendo vuol dire provare, dunque, ad interrogare il mondo che ci circonda, tenendo presente che una delle caratteristiche di un’estetica mutante, come è quella che stiamo cercando e che tenteremo di descrivere, è quella di avere delle caratteristiche che sembrano classiche, standard, che ben si attanagliano ad un estetica borghese storica della middle-class e, improvvisamente, vedere il loro cambiamento, assistere ad un paesaggio che muta, come in un dispositivo onirico e mentale.
Ad esempio, con l’avanzare dei Secondi Mondi Virtuali Condivisi il concetto di bellezza che troviamo in mondi come Second Life, per gli avatar, è quello di una bellezza stereotipata, tarata sull’estetica californiana Wasp, simile alle immagini dei videoclip e di MTV ma possiamo anche trovare i Furry, cioè avatar digitali in parte umani e in parte animali che potrebbero ricordare, molto da vicino, gli animali mitologici e gli ibridi come le chimere, descritti da poeti, artisti, scultori nel corso degli ultimi secoli.

C’è nella scienza e nella tecnologia una visione prometeica e faustiana per cui chiunque potrebbe avrebbe a disposizione, in un prossimo futuro, gli strumenti e le opportunità per un percorso di modificazione del proprio corpo e della propria mente, a vari livelli, dalla chirurgia estetica fino alla manipolazione dei cromosomi del nostro DNA sino a raggiungere forme umane biologico-robotiche, sempre più radicali. Nella vita quotidiana di tutti i giorni ognuno di noi utilizza una serie di strumenti e di devices, creando un morphing continuo e una nuvola di contenuti, sensazioni, comportamenti; basti vedere il Web 2.0 e il grande successo planetario dei social network, un affollamento di similtipi, avatar, messaggi e immagini che sembrano molto vicini, in un ottica borghese e tardo-capitalista, agli inferni danteschi o ai dipinti visionari di un Bosch o agli immaginari demoniaci tardo-medioevali. Non è un caso, invece, che le culture emergenti dell’area orientale risentano, nel loro immaginario artistico, pesantemente, dei manga e degli anime giapponesi così come, invece, la cultura americana è stata forgiata dalla pop-art e dal mito dei super-eroi alla Marvel.

Gli artisti contemporanei frequentano un’altro tipo d’immaginario, basti vedere i tipi di creazioni della young british art, come i fratelli Jake e Dinos Chapman e la loro umanità edenica e dilaniata dalla proliferazione di membri maschili e femminili o degli squali e mucche dissezionate di Damien Hirst o dai post-pop come Steve Mc Queen e i suoi teatrini disgustoso-arcadici o Jeff Koons con i suoi orsetti e cuori giganti che ci mostrano una specie di Disneyland Ogm, piuttosto che in Takashi Murakami che nel suo Flat Manifesto ci descrive un universo piatto, bidimensionale e patinato, completamente cartoonizzato e broadcast, in cui i personaggi dei suoi sogni e dei suoi incubi, che derivano, prevalentemente, da frequentazioni di manga, anime, porno on line, videogiochi, producono fiorellini e funghetti e pupazzetti, tipici dello stile kawaii giapponese, il nostro equivalente di carino nel senso ludico e infantile del termine, transfughi da un estetica disneyana all’acido, che si trasformano e diventano cattivissimi, ma fortemente posseduti del demone del marketing e della comunicazione di massa.

Lo stesso pantheon di deità orientali come Buddha e altre divinità locali viene ampiamente manipolato dallo stesso Murakami in alcune sue produzioni recenti molto inquietanti come il Grande Buddha, ma anche da un’altra artista anomala e mutante, una specie di Paris Hilton dell’arte, Mariko Mori, molto attrezzata e agguerrita dal punto di vista tecnologico, che, volentieri sostituisce la propria effigie, prendendo le forme di Buddha al femminile e semidee orientali in quadri e video-installazioni in 3D, dedicati alla mitologia nipponica antica, nel ciclo di opere Nirvana. Per un estetica ricombinante e mutagena viene in mente anche l’universo estetico ballardiano in cui le grandi metropoli post-apocalittiche del futuro sono costellate da ologrammi pop di Marylin, Elvis e altre superstar cinematografiche, o in altre parti dell’estetica ballardiana, il rapporto con la morte e con le ferite e con gli incidenti, ad esempio in Crash ma anche in La Fiera delle Atrocità è assimilabile ad una specie di geometria aliena cartesiana, che produce una religione ed un’estetica con caratteristiche cultuali, feticiste, surrealiste ed erotiche.

Interfacce pulsanti di carne e sangue come nella InterZone di William Burroughs ne Il Pasto Nudo, in cui la mutazione, la frammentazione, lo splitting, sono sempre presenti o come nell’universo-buco nero di David Lynch in cui caratteri, landscapes e situazioni comportamentali mutano improvvisamente, virando dalla commedia all’horror o in quello psicotico ed alieno di Thomas K.Dick che parlandoci della classe media americana degli anni cinquanta e sessanta, ci ha mostrato il vero volto delle mutazioni e dell’horror sociale e individuale, nascosto nelle pieghe del quotidiano e di una fantascienza dai tratti sociali e politici. Un equivalente dei turbamenti lynchiani in un regista di anime contemporaneo come Satoshi Kon che in produzioni come Paprika o Paranoia Agent introduce forme di realtà virtuale e psicosi sociale, perturbando profondamente il plot e lo schema degli anime action.

Dietro allo schermo dei televisori e alla banalità degli ipermercati e centri commerciali cova il germe della sovversione e della mutazione, proprio come viene ampiamente descritto e narrato dai grandi cantori della middle-class quali James G.Ballard, David Cronenberg, David Lynch, William Burroughs o da Andy Warhol che ha intuito con la pop-art e la sua Factory che un estetica dei sogni della classe media, capace sicuramente di esautorare il grande immaginario artistico del passato, era possibile e, forse, inevitabile. La rivoluzione delle nuove classi emergenti e la loro estetica mutagena è. dunque, dietro l’angolo?

A qualche rappresentante delle nuove generazioni
di artisti.
Carmelo Strano

Tutta colpa del Vasari che nel suo Trattato (1550) “…da Cimabue ai tempi nostri” evidenzia un cammino ideologico e stilistico che volta le spalle alle forme bizantineggianti e recupera l’antica Roma. E così da Giotto a Brunelleschi il periodo sarebbe percorso da un brivido di… Rinascita. A partire dallo scrittore e artista aretino, gli studiosi si sono sbizzarriti sul termine rinascimento. Termine, questo, responsabilmente usato, alla metà dell’ottocento, da Jules Michelet. Lo storico della rivoluzione francese mette in evidenza i nuovi orizzonti della scienza e dell’uomo tra ‘400 e ‘500. Nascono i numeri intorno al termine rinascimento: 1°, 2°, 3°. Chi ha pazienza vedrà, prima o poi, il 4°. Un curioso personaggio, intellettualmente parlando, parlò di terzo rinascimento nella seconda parte dell’ottocento. Storico e militante di tutte le imprese garibaldine, finite le avventure militaresche, diventa professore di letteratura a Palermo.

Tra approdo dei garibaldini a Marsala e l’atmosfera dell’illuminato Federico II, deve avere ricevuto qualche provocazione storiografica, il bresciano Giuseppe Guerzoni. E così nel 1874 pubblica le lezioni appena tenute su Parini, Manzoni Leopardi. All’insegna di Terzo Rinascimento (questo è il titolo).
In quel periodo si dibatteva se il risorgimento fosse patrocinato dall’umanesimo o dal medio evo. Le tendenze romantiche spingevano verso la seconda idea. Guerzoni toglie al 400 (abitualmente indicato come epoca rinascimentale) l’aura di riferimento della modernità per attribuirla al medio evo, vero “progenitore della vita moderna”, come scrisse in una lettera al pensatore Giorgio Politeo. Questo suo impegno storiografico è contrappuntato, peraltro, dalle sue residenze di docente. Dopo Palermo, Padova. E qui altro corso, con immediata pubblicazione dal titolo “Primo rinascimento”.

In mezzo la virtù? In mezzo, tra medio evo (primo rinascimento) e sette-ottocento (terzo rinascimento) per forza di cose c’è il (“secondo”) rinascimento, ovviamente, secondo l’ottica di Guerzoni, enfatizzato, millantato, ecc. Da lì a poco gli farà eco, un contributo più sistematico, Konrad Burdach.
Il pensatore tedesco fa risalire la “rinascita” addirittura all’anno mille. Con ciò contrastando un “rinascimentale” convinto, Jacob Burckhardt, che rilevava una grande discontinuità fra ‘400 e medio evo.
Fatto questo rapido excursus, voglio ricordare un caro povero amico, studioso di grande valore, accademico non accademico. Penso a Eugenio Battisti e al suo brilantissimo volume su L’Antirinascimento (a partire dal 1962, Feltrinelli). Classicità, classicità, classicità? No, no. La sua scorribanda sul cinquecento mette proprio in evidenza esoterismi, asimmetrie, grottesco, allegoria, manierismo: il tutto contestualmente o convivente con la classicità. Altro rilievo interessante è il principio di discontinuità di Pavel Florensky che contraddice ogni classicità.

Poi affiorano ogni tanto motivi di carattere epocale. Le cose cambiano, l’organizzazione sociale, il senso della vita, la religiosità, l’arte. E si volta pagina. E si battezza con un nome nuovo l’emergente condizione temporale. Un termometro efficace? Eccolo: l’architettura.
Come riteniamo, da Vitruvio, daI I secolo a.C. in poi, l’architetto è un intellettuale attivo che si collega col senso della società di cui esprime le urgenze. Le esprime non nella poesia in versi e su carta stampata (o web), ma nel pieno contesto della città, fra le sue corse, segnaletiche, pubblicità, rumori, luci, fischietti dei vigili urbani. L’architettura, infatti, consolida, arricchisce (nel bene e nel male), dà valore aggiunto alla città. Non solo: la qualifica, ne determina il carattere. Dove non si costruisce c’è stallo, economia bloccata, come pure sviluppo civile e culturale.

L’accento sull’architettura non abbassa l’importanza che, anche da questo punto di vista, ha l’arte. Diciamo, per comodità, che l’architettura non è, come si dice talvolta, sorella maggiore dell’arte: è solo sorella dai tratti somatici più appariscenti. Ogni momento storico vive un suo risveglio, una rinascita, per riprendere il termine del Vasari. Ciò, a dispetto del fatto che le generazioni successive gli affibbino epiteti negativi (come è accaduto con “barocco” e “manierismo”).
Ma, come sanno la maggior parte delle nuove leve dell’arte, anche la sorella fisicamente più robusta, come qualsiasi altra disciplina, oggi vive di contaminazioni. Chiamiamolo come vogliamo il nostro tempo: in ogni caso un carattere distintivo è nel fatto che l’autosufficienza risulta oggi anacronistica, e così ogni tentazione monocratica. Quest’ultima si afferma soltanto in campo politico laddove sopravvivono e si instaurano regimi autoritari. E’ tempo di oligarchia dirigenziale, e non più di monarchia.

E’ tempo di regia nelle cariche di responsabilità: ciò che al momento è il capo, il direttore, il presidente, il segretario, ecc. è destinato a diventare, se ne è capace, il coordinatore di un comitato investito della carica e delle responsabilità fino ad ora monocraticamente gestite. Le nuove generazioni di artisti sanno che il dipinto e la scultura sono ormai un divertimento (quando lo sono) dai risvolti mercantili facili. Ma essi sanno anche (sanno, sentono, vivono) che l’arte ha un ruolo di primo piano nella società. Non solo per le provocazioni (arte sociologica) dei Damien Hirst, dei Maurizio Cattelan che pure hanno oltrepassato l’estetismo fine a se stesso di un neo-pop diffusosi particolarmente negli anni ’80, con in trincea Jeff Koons. Da più forti spinte etiche sono state animate le bombolette della street art e dei body-writer. In ogni caso, si vuole sottolineare il fatto che l’arte già dagli anni ’80 (credo utile ricordare che è del 1983 il mio volume sull’Arte ambientale) serpeggia per le strade, sui giornali, nella pubblicità, sulle palizzate, sopra le automobili, sui collant, decora i cantieri e ogni forma e occasione di comunicazione.

Un tempo l’architettura la faceva da padrona; oggi, col dispotismo della comunicazione visiva, l’architettura rimane la sorella dalle spalle più larghe, ma sorpassata dall’arte per la maggiore diffusione di quest’ultima nei gangli dell’assetto sociale. Diciamo che gli oggetti d’arte per numero superano di gran lunga quelli architettonici. Per buona pace, dato l’affratellamento, vogliamo fare 1 a 1? Pareggio legittimo. Non è la sede per indagare ulteriormente sui caratteri del nostro tempo. Quindi, come ragguaglio sintomatico, e pertinente, mi limiterò a fare qualche rilievo sulla bellezza. Ma non senza avere fatto cenno, prima, a due-tre aspetti di natura generale. Le nuove generazioni sanno (e devono sapere) ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti. Ma, certo, non così era quando maturavo e pubblicavo queste intuizioni a partire dagli inizi degli anni ’80: parcellizzazione, disseminazione, dinamismo sfrenato perché “caotico” (non l’antica nozione di disordine, ma caos come nuovo ordine),

tendenza a formare equilibri (ma instabili: ho parlato di “Nuova Classicità”, che, a questo punto ha poco a che vedere con la classicità sperimentata nei secoli; o, in alternativa, di “Dimensioni non implosive”). E poi: multiculturalismo, ibridazione universale, ecc. Quest’ultima come risultato dell’interculturalismo. Ma anche come terreno di fusione di fisiologia umana e fisiologia tecnologica (ingegneria genetica, ecc.). Vale la pena ricordare un corto animato del 2003, “Secondo rinascimento”. Narra di un androide che uccide, per spirito di sopravvivenza, la propria padrona. L’episodio si espande a macchia d’olio e degenera in guerra tra robot e umani a livello mondiale. Non se ne parla più (sono passati quasi vent’anni): nel 1992 il mercante, gallerista, critico americano Jeffrej Deitch lancia una mostra itinerante che fece scalpore.

“Posthuman”: sull’arte e l’ibridazione del corpo con testimonianza di una serie di artisti noti e meno noti, fra i quali uno efficace (Matthew Barney) e uno poco pertinente, perché stucchevolmente oleografico e autoreferenziale, Jeff Koons che, si ricorderà, si esibì qualche anno fa alla Biennale di Venezia in una scultura melensa e tutta zucchero che lo rappresentava in fase di accoppiamento con la “Cicciolina”.
E’ quanto basta per sottolineare, con pochi ragguagli il carattere complesso del nostro tempo. E complessa è anche l’estetica o disciplina che si occupa della bellezza. Almeno nei suoi nuovi statuti non tradizionali e non accademici. Quale bellezza oggi? (Nel terzo millennio?). La mia, la tua, la sua, la loro…ognuno con il suo concetto di bello. Cioè: ognuno con la propria filosofia del bello. Il problema non è più essere coerenti con qualcosa di prestabilito dall’esterno (informale, concettuale, ecc.).

La coerenza è tutta interna al soggetto-artista. In assenza di principi di ferimento, e, ancor più, di modelli da imitare (secondo l’estetica classica), ogni artista (giovane: le generazioni che precedono sono sotto il segno del passato) mette a fuoco (lucidamente o in bozza: non importa) una propria filosofia dell’arte. La coerenza nel realizzato è tra questo e il pensiero dell’autore. Almeno, in linea di massima. La nostra condizione “caotica” ci conferma un dinamismo incessante, un magma inarrestabile capace persino di travolgere, o stravolgere, il background del pensiero artistico del “filosofo-progettista-artista”.
In tale condizione c’è spazio per il giudizio esterno (del fruitore o dello studioso?). Nel 1980, nell’occasione della Fiera d’Arte di Bari, conversando, da giovane critico, col compianto Filiberto Menna (a qualche nuova leva curiosa ne consiglio la lettura), gli dissi, provocando un suo sguardo esterrefatto, che in breve tempo la figura del critico (fino ad allora nota) sarebbe stata fuori gioco. Vado direttamente all’oggi. Il critico autorevole temuto o ambito dagli artisti quasi non esiste più.

La firma autorevole è una chicca finale, o sui primi approdi (del cammino arrivistico: devo esprimermi così).
All’inizio, non c’è il giudizio e lo spianamento della strada per virtù di autorevolezza. La categoria gettonata è quella dei curatori, che raramente sono degli studiosi, ma in genere semplicemente degli informati alla conquista di posti di combattimento, ossia di posizioni di potere: presso musei, gallerie civiche, ecc. Insomma, a questo livello e a questi scopi non serve il ginecologo, basta una praticona levatrice che sa dove mettere le mani. Arriverà il momento (se arriva) che l’artista, o chi per lui, sente il bisogno di un po’ di aureola culturale e di approfondimento. Ecco la telefonata allo studioso, storico ed esperto di problematiche dell’arte. E che sia autorevole, possibilmente con tanto di paludamento accademico. Ma il recupero del senso etico, sempre più incalzante, spingerà verso qualche mosca bianca: quella figura che unisca conoscenza storica, problematica critica e capacità curatoriale di impostazione scientifica.

E già: si evidenzierà sempre più la differenza tra una mostra ben curata e raccogliticcia, o strategica, e una mostra scientificamente responsabile e degna di firma.
Ecco alcuni rilievi sul nostro rinascimento. Una lettera breve a una giovane leva che avesse qualche curiosità, in aggiunta all’ansia, pur legittima, di affermarsi. E’ sotto gli occhi di tutti che stiamo vivendo esperienze assolutamente inedite. Ad esempio, il cambiamento, nel mondo occidentale, della razionalità, che, da forte e tenace (rinascimento quattrocentesco), è diventata (ne teorizzavo nel 1981) docile e elastica (Dora). Bellissimo, il nostro rinascimento, pieno di sorprese e di avventure, dal banalissimo film 3D, alle navigazioni avatar, a una sensibilità complessa. Ognuno attraversi a proprio modo questa complessità e ne esca spaesato e provocato, come dopo avere percorso, titubante, un labirinto in un luna-park. L’arte, dopo tutto, è una sorta di circo.

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